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La responsabilità civile del magistrato e  i rapporti con la responsabilità disciplinare

di Mario FRESA

 

 

 

 

 

1. La responsabilità civile è una forma di responsabilità autonoma e distinta dalle altre forme di responsabilità del magistrato, quella penale, disciplinare ed amministrativo-contabile.

Essa si traduce nel dovere di risarcire il danno arrecato per la lesione della sfera giuridica di un altro soggetto e non è identica a quella degli altri pubblici dipendenti (art. 28 Cost.),1 in quanto trova la sua ragione nello statuto costituzionale del magistrato.

Nell’ottica di questa speciale posizione del magistrato, a livello di fonti primarie (oltre che nelle generali previsioni degli artt. 2 e 4, legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, degli artt. 1218 e 2043 ss. c.c. e degli art. 22 ss., d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) la responsabilità civile è oggi regolamentata essenzialmente dalla legge 13 aprile 1988 n.117 (conseguenza della nota consultazione referendaria dell’8 novembre 1987)2 - così come modificata dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18 - che ha apportato alcune rilevanti modifiche rispetto alla regolamentazione generale valevole per tutti i pubblici dipendenti, con previsioni tuttora di favor (sia pure attenuato dal legislatore del 2015) da ritenere costituzionalmente legittime alla luce dell’art. 28 cost. (che rinvia la regolamentazione della responsabilità civile al legislatore primario, il quale può creare regimi differenziati tra pubblici dipendenti) e di pregressi indirizzi della Consulta.3

Secondo l’art.1, la legge n. 117 del 1988 (non modificata in parte qua dalla legge n. 18 del 2015)4 si applica a “tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria”.5

La legge afferma il principio della risarcibilità di qualunque danno ingiusto conseguente ad un “comportamento, atto o provvedimento” giudiziario posto in essere da un magistrato, con “dolo o colpa grave”, “nell'esercizio delle sue funzioni” ovvero conseguente “a diniego di giustizia” (art. 2).

Costituiscono colpa grave ex art. 2, terzo comma (nel testo risultante a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 18 del 2015):

a) la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea;

b) il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c) la emissione di provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Costituisce diniego di giustizia ex art. 3, primo comma (non modificato dalla legge n. 18 del 2015) il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria (salvo la proroga, prevista dal secondo comma e salvo la riduzione del termine a cinque giorni, prevista dal terzo comma nel caso di ritardo nella scarcerazione).

 

La condotta del magistrato che dà luogo a responsabilità civile può essere anche collegiale: in tale evenienza rispondono tutti i componenti autori della decisione, anche se dev’essere valutata, ai fini del contributo causale e psicologico, l’eventuale6 dissenting opinion formalizzata ai sensi dell’art.16 della legge n.117 del 1988 (non incisa in parte qua dalla legge 18 del 2015).

Presupposto della responsabilità è la produzione del danno nell’esercizio delle funzioni.

Le condotte extrafunzionali dannose devono invece essere risarcite dal magistrato, secondo le comuni regole.

I magistrati rispondono direttamente nella sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato commessi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 13, non inciso in parte qua dalla legge n. 18 del 2015).

In tutti gli altri casi - senza più alcun filtro di ammissibilità (l’art. 5 è stato integralmente abrogato dalla legge n. 18 del 2015) - è prevista un’azione di risarcimento contro lo Stato e, specificamente, nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri da esercitarsi entro tre anni dal momento in cui l’azione è esperibile (secondo i criteri stabiliti dall’art. 4, come modificato dalla legge n. 18 del 2015), tenuto in prima battuta a risarcire il danno ai terzi, salvo esercitare l’azione di rivalsa verso il magistrato entro due anni dal risarcimento avvenuto, in via obbligatoria nelle ipotesi di diniego di giustizia e nei casi in cui la violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione europea o del travisamento del fatto o delle prove siano stati determinati da dolo o negligenza inescusabile (artt. 7 e 8, così come modificati dalla legge n. 18 del 2015).

Ancor prima dell’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 la giurisprudenza di legittimità - innovando ad un precedente indirizzo di segno contrario - aveva ritenuto irrilevante, ai fini risarcitori, l'indagine sulla sussistenza o meno di un vincolo di “necessaria occasionalità” con l'esercizio della funzione giurisdizionale in senso stretto, potendosi configurare - come desumibile dall'art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, che regola anche l'ipotesi in cui non siano previsti rimedi processuali avverso i provvedimenti decisori - un'azione di responsabilità per un fatto che non tragga origine esclusivamente da un comportamento o da un atto del magistrato.7

Ove il soggetto danneggiato sia una Pubblica amministrazione, si è posto il problema di giurisdizione che, secondo parte della dottrina, avrebbe dovuto spettare alla Corte dei Conti, trattandosi di ipotesi di danno diretto arrecato dal magistrato-dipendente ad altro ente pubblico (c.d. danno obliquo), devoluto alla giurisdizione dell’organo giuscontabile.8

Tuttavia, la Corte di cassazione si è pronunciata nel senso che “…pur dovendosi riconoscere, alla stregua della normativa vigente e di alcune pronunce della Corte costituzionale, che non sussistono ragioni per escludere la responsabilità amministrativa dei magistrati qualora vi sia un comportamento riconducibile ad ipotesi di reato, la controversia promossa dal Procuratore regionale della Corte dei conti, nei confronti di un magistrato ordinario, per il danno colposamente arrecato all'Amministrazione a seguito del ritardato dissequestro di due autoveicoli affidati in custodia giudiziale, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, e non della Corte dei conti, non essendo configurabile alcuna ipotesi di reato e trattandosi di danno causato - alla luce della legge 13 aprile 1988, n. 117 - nell'esercizio delle funzioni giudiziarie”.9

Dunque, ove il soggetto danneggiato dall’attività giurisdizionale del magistrato, responsabile per colpa grave, sia la Pubblica amministrazione, essa deve agire in buona sostanza contro sé stessa, e poi lo Stato, definitivamente condannato, deve convenire il magistrato con l’azione di rivalsa, solo ove ne sussistano i presupposti (negligenza inescusabile).

La legge n. 117 del 1988 (pur dopo le modifiche apportate dalla legge n. 18 del 2015) - come il dl.gs. n. 109 del 2006 in materia disciplinare - chiarisce (art. 2, secondo comma) che, salvo specifiche e circoscritte eccezioni, non possono dare luogo a responsabilità “l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Le eccezioni alla c.d. clausola di salvaguardia interpretativa sono costituite dalla responsabilità per colpa grave nel caso di violazione delle leggi e del diritto dell’Unione europea e di travisamento del fatto e delle prove.

Nell’interpretazione del concetto di “colpa grave”, che pone l’esercizio dell’attività giurisdizionale fuori dei limiti derivanti dalla libera interpretazione delle leggi e che dà luogo a responsabilità civile, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che “i presupposti … devono ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell'attività giurisdizionale, spesso caratterizzata da opzioni tra più interpretazioni possibili di una norma di diritto, si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero”.10

Il principio di diritto è applicabile anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015.

Ove i limiti posti dalla legge alla interpretazione delle leggi non vengano superati, la tutela delle parti può essere solo endoprocessuale, con il ricorso al sistema delle impugnazioni.

In tale evenienza può esservi eventualmente spazio per la responsabilità disciplinare del magistrato, laddove ci si trovi in presenza di abnorme o macroscopica violazione di legge ovvero di uso distorto della funzione giudiziaria.

Invero, anche se il concetto di “colpa grave” di cui alla legge n. 117 del 1988 è collegato al concetto di “negligenza inescusabile”, espresso anche nel d.lgs. n. 109 del 2006, deve ritenersi che, mentre in sede di responsabilità civile un danno risarcibile può esservi solo quale conseguenza di una decisione lesiva di un diritto soggettivo, in sede disciplinare anche una decisione corretta nella sua parte dispositiva può essere fonte di responsabilità, se conseguenza di un comportamento deontologicamente scorretto.

Anche in sede di responsabilità civile è rimesso alla valutazione del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove congruamente e logicamente motivata, accertare se quella posta in essere dal magistrato intimato integri una "attività di interpretazione di norme di diritto” o di "valutazione del fatto e delle prove”, con impossibilità di configurare la responsabilità o una condotta posta in essere con "dolo o colpa grave” o di "diniego di giustizia”, fonte di danni nei confronti dei terzi.

Se venga in rilievo il dolo del magistrato (ma lo stesso vale per la colpa grave), l'attore deve offrire elementi idonei a configurarlo, non essendo sufficiente l’affermazione della possibilità che la condotta sia preordinata ad un fine illecito.

 

Quanto ai danni derivanti dalla violazione del diritto dell’Unione europea, essi rappresentano la ragione principale dell’intervento legislativo del 2015, ma è bene precisare i limiti in relazione ai quali lo Stato era tenuto ad intervenire onde evitare il trattamento sanzionatorio dell’Unione europea.

Un affermato indirizzo giurisprudenziale euro unitario11 ha infatti statuito il principio in base al quale gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli da violazioni del diritto euro unitario anche se la lesione derivi da una decisione del giudice nazionale di ultimo grado che abbia leso in modo manifesto il diritto vivente e, segnatamente, norme che conferiscano diritti ai singoli.

Tale orientamento, nel sancire un risarcimento ancorato all’inosservanza di precetti euro unitari, non prevede alcuna valutazione in ordine al dolo o colpa grave del magistrato, né pone sbarramenti a fronte di attività del giudice interpretativa della legge com’era previsto dalla legge n. 117 del 1988 nel testo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, che non poteva applicarsi, con i suoi restrittivi presupposti, in caso di violazioni di norme sovranazionali.

Il diritto euro unitario impedisce al legislatore nazionale di introdurre norme che escludano la responsabilità dello Stato per danni arrecati a singoli dalla violazione del diritto euro unitario da parte del giudice interno di ultimo grado, ancorché si tratti di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove da parte del giudice nazionale.

Secondo i giudici euro unitari “escludere ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato per il motivo che la violazione contestata al giudice nazionale riguarda l'interpretazione delle norme giuridiche ovvero la valutazione effettuata da quest’ultimo su fatti o prove equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio della responsabilità dello Stato e avrebbe come conseguenza che i singoli non beneficerebbero di alcuna tutela giurisdizionale ove un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado commettesse un errore manifesto nell'esercizio di tali attività di interpretazione o di valutazione”.

La violazione delle norme euro unitarie - secondo la Corte di giustizia europea - è da ritenere “manifesta”, in relazione a certi criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell’errore, la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale.

La violazione “manifesta” si presume quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia.

Si era determinato così un diverso regime di responsabilità dello Stato a seconda che il giudice nazionale non avesse osservato, con dolo o colpa grave, norme nazionali (in tal caso operava la legge n. 117 del 1988 nel testo antecedente la legge n. 18 del 2015) o avesse violato in modo manifesto norme euro unitarie (in tal caso operavano i presupposti risarcitori elaborati dalla Corte di giustizia europea, ma non era chiaro se e dinanzi a quale autorità giudiziaria poteva essere chiamato in sede di rivalsa a risarcire il danno il magistrato interessato).

Questa solo era l’esigenza di un intervento esplicativo del legislatore, che meglio era tenuto a coordinare le preesistenti regole nazionali della legge n. 117 del 1988 con i sopravvenuti sviluppi interpretativi della Corte di giustizia europea.

Di difficile comprensione tecnico-giuridica si è pertanto rivelato l’acceso dibattito parlamentare sull’azione diretta contro il magistrato, giacché mai la giurisprudenza di legittimità aveva dubitato che “la previsione dell'esclusione della proponibilità di un'azione risarcitoria diretta nei confronti del singolo magistrato non integra alcuna limitazione del diritto di agire del danneggiato, né sotto il profilo costituzionale (artt. 2, 3, 24, 32, 111, 117 Cost.), né sotto quello eurounitario (artt. 1, 20, 21, 47, 53, 54 e 55 della Carta di Nizza), né sotto quello sovranazionale (artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, art. 8 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo adottata dall'ONU e dal Patto dei diritti civili di New York) in quanto la posizione soggettiva del danneggiato trova piena ed appagante tutela nella responsabilità diretta dello Stato, mentre l'anzidetta esclusione non costituisce privilegio ma estrinsecazione della autonomia e indipendenza di ciascun appartenente all'ordine giudiziario nell'esercizio della funzione giurisdizionale”.12

Come molto recentemente ha confermato la Corte di legittimità, “la giurisprudenza eurounitaria (già comunitaria) si riferisce esclusivamente alla responsabilità dello Stato per condotte dei giudici di ultima istanza, risolventisi nella violazione del solo diritto eurounitario (già comunitario) e non anche di quello nazionale”.13

Ma, tant’è, il legislatore del 2015 - interpretando in maniera estensiva l’urgenza di provvedere alla modifica della responsabilità dello Stato per condotte dei giudici di ultima istanza - ha ritenuto di dover modificare l’intero impianto del sistema di responsabilità civile dei magistrati, abrogando la noma riguardante il c.d. filtro di ammissibilità, che non si poneva in contrasto con il diritto dell’Unione europea14 e determinando anche nuovi problemi interpretativi di coordinamento tra i diversi sistemi di responsabilità civile e disciplinare.

 

2. Mentre la responsabilità civile prevista dalla legge n. 117 del 1988 (così come modificata dalla legge n. 18 del 2015) attiene ai rapporti del magistrato con le parti processuali o con altri soggetti a causa di eventuali errori o inosservanze nell'esercizio delle funzioni, la responsabilità disciplinare prevista dal d.lgs. n. 109 del 2006 consegue alla violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato-datore di lavoro.15

Le due responsabilità possono a volte concorrere, pur conservando i relativi iter punitivi autonomia strutturale e procedimentale, senza alcun vincolo decisionale derivante dall’esito civile in sede disciplinare e viceversa ex art. 20, primo comma, d.lgs. n.109 del 2006: “L'azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione civile di risarcimento del danno o dall'azione penale relativa allo stesso fatto, ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 15, comma 8”.

L’autonomia tra illecito disciplinare e civile è confermata dagli artt. 6 e 9, legge 13 aprile 1988 n. 117, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 27 febbraio 2015 n. 18.

Anzitutto, ai sensi del secondo comma dell’art. 6 “non fa stato nel procedimento disciplinare” la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato. Tale previsione è naturalmente la conseguenza dei principi generali in tema di giudicato, secondo i quali la cosa giudicata presuppone - tra l’altro - l’identità dei soggetti che partecipano ai rispettivi procedimenti.

Essa appare comunque superflua giacché il secondo comma dell’art. 20 del d.lgs. n. 109 del 2006 - dopo l’enunciazione del principio generale dell’autonomia del giudizio disciplinare rispetto ai giudizi civili e penali - prevede limitate ipotesi di possibile autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare in riferimento esclusivo alla sentenza penale, di condanna o di assoluzione, mentre nulla prevede in relazione ad analoghe ipotesi di cosa giudicata per effetto di sentenze civili, tanto meno di danno, pronunciate ai sensi della legge n. 117 del 1988, come modificata dalla legge n. 18 del 2015. Il ché sta a significare che nessuna sentenza civile - e non solo quella prevista dall’art. 6, secondo comma, della legge 117 - fa mai stato nel procedimento disciplinare.

Questa preliminare considerazione ha il suo peso nella soluzione degli altri problemi interpretativi attinenti i rapporti tra giudizi civili di danno e giudizi disciplinari.

Dopo l’abrogazione dell’art. 5, quinto comma, secondo cui “se la domanda è dichiarata ammissibile, il tribunale ordina la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare”, va verificato se è compatibile la vigente disposizione dell’art. 9, secondo cui “il Procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta”.

In particolare, dopo l’abrogazione dell’inciso “entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5”, si pone - rimanendo inizialmente nell’ambito del criterio di interpretazione letterale - un primo problema, riguardante il momento a partire dal quale i titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ordinari e non, “devono” esercitare l’azione disciplinare.

Prima della legge n. 18 del 2015 (e, come si vedrà, del d.lgs. n. 109 del 2006) questo momento era cristallizzato dal termine di due mesi decorrente dalla obbligatoria trasmissione, da parte del presidente del tribunale deliberante sulla ammissibilità della domanda risarcitoria, di copia degli atti del giudizio civile.

Ora, abrogata la norma che regolava il “filtro” di ammissibilità della domanda risarcitoria e non essendo specificato alcun termine per l’esercizio della doverosa azione disciplinare - che presuppone ovviamente una comunicazione formale al titolare dell’azione dei “fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento”, comunicazione non più prevista come dalla legge - si pongono diverse, possibili opzioni interpretative:

  1. Deve anzitutto escludersi che l’obbligo scaturisca a partire dalla mera proposizione della domanda risarcitoria in sede civile, tanto meno dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato e, quindi, nei confronti di un soggetto terzo rispetto al magistrato. Se così fosse, qualsiasi cittadino, di fatto, potrebbe decidere se far esercitare l’azione disciplinare nei confronti di un magistrato, determinandone immediati effetti sulla carriera (valutazioni di professionalità e altro) e quindi di fatto incidendo anche indirettamente su procedimenti di copertura degli uffici direttivi, semidirettivi, ecc.; il che comporterebbe molteplici dubbi di legittimità costituzionale della norma in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 104 primo comma, 105 e, per le giurisdizioni speciali, all’art. 108. Del resto, la Corte Costituzionale ha già affermato - a proposito della legittimità costituzionale del c.d. filtro di ammissibilità, ora abrogato - che il giudice va garantito dalla proposizione di “azioni infondate che possano turbarne la serenità impedendo al tempo stesso di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione”.16

  2. Deve quindi escludersi che l’obbligo scaturisca dalla sentenza di condanna nei confronti dello Stato (passata o meno in giudicato), anche per il disposto dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988 secondo il quale - come si è osservato - è espressamente previsto che la sentenza nei confronti dello Stato “non fa stato nel procedimento disciplinare” e, prima ancora, “non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio”.

  3. Deve conseguentemente escludersi che l’obbligo scaturisca dalla mera proposizione dell’azione di rivalsa, dato che anch’essa sfocia in una sentenza che non fa stato nel giudizio disciplinare.

  4. Non rimane che collegare - in via astratta - l’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare alla sentenza di condanna del magistrato nel giudizio di rivalsa. Resta da vedere se sia sufficiente per l’obbligatorio esercizio la sentenza non ancora definitiva oppure sia necessario il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Poiché la legge nulla prevede in proposito, sembra preferibile l’opzione interpretativa meno estensiva e maggiormente garantista per il magistrato condannato, anche tenuto conto dei dubbi di costituzionalità che, enunciati sub a), potrebbero porsi, sia pure in maniera meno evidente, anche in quest’ultima ipotesi. Per di più, con riferimento al rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale, la sospensione dei termini del primo procedimento nel caso di esercizio dell’azione penale, cessa con il giudicato della sentenza pronunciata in tale sede (art. 15, ottavo comma, lett. a) del d.lgs. n. 109 del 2006) e questo dato - anche sul piano dell’interpretazione logico-sistematica della norma, cui si deve ricorrere in mancanza di un qualsivoglia dato letterale - è significativo della intenzione del legislatore di rendere doveroso l’esercizio dell’azione disciplinare solo quando “i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento” non siano più contestabili in quanto sia divenuta definitiva ed irrevocabile la sentenza che in quella sede li abbia accertati.

D’altra parte, il primo comma dell’art. 9 pone un problema ancor più delicato. Quello della compatibilità con il vigente sistema disciplinare tipizzato - riguardante soltanto i magistrati ordinari e quelli militari - di una previsione legale di obbligatorietà di esercizio dell’azione disciplinare in assenza di una fattispecie tipizzata. In altre parole, al di là della insoddisfacente interpretazione letterale, va verificato, sul piano della interpretazione logico sistematica, se l’espressione “deve” possa rispondere al suo significato letterale nella vigenza di un sistema disciplinare basato - a partire dal 2006 - non più su un unico illecito atipico (art. 18 r.d.lgs. 31 maggio 1946 n. 511), ma su una serie definita e circoscritta di illeciti tipizzati.

Con il vigente sistema disciplinare, invero, si deve procedere ad una valutazione ex ante dei fatti suscettibili di dar luogo alla violazione, per cui si ha illecito (rectius, si ha l’ipotesi di illecito, tale da rendere obbligatorio l’esercizio dell’azione) soltanto quando c’è violazione (rectius, l’ipotesi di violazione) dei doveri fondamentali di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 e ricorre una delle ipotesi previste nei successivi artt. 2 (illeciti posti in essere nell’esercizio delle funzioni), 3 (illeciti posti in essere fuori dell’esercizio delle funzioni) e 4 (illeciti conseguenti a reato), non ricorrendo al contempo l’ipotesi di cui all’art. 3 bis (irrilevanza disciplinare della condotta).

La condotta del magistrato che abbia dato luogo ad una ipotesi risarcitoria in sede civile non è di per sé sintomatica della configurabilità di una ipotesi disciplinare, non coincidendo sempre le ipotesi di responsabilità civile e le ipotesi di responsabilità disciplinare, e non essendo stato posto in discussione dal legislatore del 2015 il principio di autonomia del procedimento disciplinare anche rispetto al giudizio civile, come rispetto al giudizio penale, principio che - come si è già osservato - è sancito dall’art. 20 del d.lgs. 109/2006, norma che non risulta neanche implicitamente abrogata per incompatibilità con le sopravvenute norme della legge n. 18 del 2015 e che consente di non configurare, in ogni caso di azione di risarcimento, un automatismo in sede di valutazione della responsabilità disciplinare, che può essere esclusa nel caso di affermazione di responsabilità civile, come può essere affermata in assenza di azione risarcitoria. Si pensi ad esempio all’illecito civile del diniego di giustizia (art. 3, legge n. 117 del 1988) ed all’illecito disciplinare del ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzione (lett. q) del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006), diversi nei presupposti di diritto che rendono configurabili le rispettive fattispecie; si pensi ancora all’illecito civile della violazione manifesta del diritto dell’Unione europea (art. 2, terzo comma, legge n. 117 del 1988, così come modificata dalla legge n. 18 del 2015), con le specificazioni (di cui al successivo comma 3 bis) della “mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale” e “del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”, ed alla relativa impossibilità di inquadrare la stessa condotta - quando non si riverberi in una violazione di legge dell’ordinamento interno - nell’ambito delle fattispecie disciplinari poste in deroga al c.d. principio di salvaguardia interpretativa (art. 2 lett. g), ff), m) del d.lgs. 109 del 2006).

D’altronde, se il legislatore avesse voluto configurare una nuova fattispecie disciplinare tipizzata, coincidente con la condotta foriera di responsabilità civile del magistrato, in base ai principi generali in tema di tipizzazione degli illeciti, avrebbe dovuto prevederlo espressamente. Inoltre, non si comprende come, in assenza di un obbligo di comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare da parte del presidente (del tribunale o della corte d’appello) ove si sia svolto il giudizio di rivalsa eventualmente sfociato in condanna (definitiva o non definitiva che sia), il Procuratore generale della Corte di cassazione “debba” (si presuppone sempre) esercitare l’azione disciplinare indipendentemente dal fatto che abbia o meno ricevuto formale comunicazione della sentenza, divenuta irrevocabile o anche solamente emessa.

Per di più - in maniera contraddittoria - è lo stesso legislatore a ritenere la non coincidenza tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare laddove prevede, al terzo comma dell’art. 9 della legge n. 117 del 1988 (sul punto non modificata dalla successiva legge n. 18 del 2015) che la disposizione “che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare”. Peraltro, è noto che nel giudizio disciplinare, a seguito della tipizzazione del 2006, la rilevanza dell’errore del magistrato nell’esercizio delle funzioni, è limitata alle ipotesi di “ignoranza o negligenza inescusabile”, che sono ipotesi di intervento sanzionatorio anche più restrittive rispetto alla “colpa grave”, com’è del resto riconosciuto proprio dal legislatore del 2015, che - per gli illeciti consistenti nella violazione manifesta della legge, del diritto dell’Unione europea o nel travisamento del fatto o delle prove - limita l’azione di rivalsa ai soli casi in cui essi siano stati determinati da dolo o negligenza inescusabile (art. 7, primo comma).

Diversamente potrebbe ipotizzarsi in relazione all’azione disciplinare nei confronti dei magistrati amministrativi e contabili, laddove non sussiste un sistema di tipizzazione degli illeciti, non essendo ad essi applicabile il d.lgs. n. 109 del 2006 e vigendo ancora il sistema dell’atipicità degli illeciti disciplinari.

In tali casi, è ben possibile una obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare “per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento”, sia pure dopo che quei fatti non siano più controversi, e cioè all’esito di sentenza irrevocabile nel giudizio di rivalsa.

Dunque, per i magistrati ordinari (e per quelli militari) non avendo previsto il legislatore una nuova forma di illecito disciplinare, non potendo ipotizzarsi tout court una responsabilità disciplinare per il solo fatto dell’accertamento definitivo di una responsabilità civile, deve conseguentemente escludersi anche il solo obbligo di esercizio dell’azione disciplinare “per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento” in sede civile.

Pertanto, le considerazioni che, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 109 del 2006, avevano fatto ritenere al Procuratore generale della Corte di cassazione - in più di un decreto di archiviazione - che nel sistema disciplinare vigente non è più compatibile l’applicazione della legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, nella parte in cui prevede l’obbligatorio esercizio dell’azione disciplinare nel caso di ammissibilità della domanda di risarcimento nei confronti dello Stato, devono essere - a maggior ragione - ribadite anche alla luce della legge n. 18 del 2015, ove il filtro di ammissibilità è venuto meno e dove il termine “devono” può e deve essere considerato - proprio alla luce della proposta interpretazione logico sistematica - nulla più di un mero refuso legislativo, conseguente al mancato coordinamento tra l’originario testo del 1988, antecedente alla tipizzazione degli illeciti disciplinari del 2006, ed il nuovo testo del 2015, che ha previsto l’abrogazione dell’obbligo di comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare nel caso di ammissibilità dell’azione risarcitoria.

In conclusione, l’apparente contrasto tra le normative che disciplinano le diverse responsabilità del magistrato - civile e disciplinare - va risolto nel senso che è la legge sulla responsabilità civile che deve adeguarsi ai principi speciali propri della responsabilità disciplinare, e non viceversa, tanto più che, mentre l’esercizio dell’azione civile è una facoltà della parte che si ritenga danneggiata (la quale se ne assume in proprio la responsabilità, con relativa esposizione ad eventuale azione di danni nei suoi confronti ove la “lite” si dovesse rivelare “temeraria”), l’esercizio dell’azione disciplinare è un obbligo di legge per il Procuratore generale della Corte di cassazione (art. 14, terzo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) e ciò sta a significare che l’Alto organo della magistratura requirente deve iniziarla soltanto quando ne sussistano i presupposti, non certo quando tali presupposti non sussistono perché, pur dopo un lungo giudizio risarcitorio conclusosi con condanna del magistrato responsabile, manchi la notizia circostanziata di una fattispecie tipizzata dal legislatore (quanto al Ministro della giustizia, la facoltà di esercizio dell’azione disciplinare è prevista anche dal primo comma dell’art. 9 della legge n. 117 del 1988, oltre che dal secondo comma dell’art. 14 del d.lgs. n. 109 del 2006).

L’esclusione della obbligatorietà di intervento, da parte dei titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari (e militari), non copre il ventaglio di tutte le possibili ipotesi di rapporti tra l’azione risarcitoria e quella disciplinare.

E’ verosimile ritenere che ciò che è stato solito avvenire sino all’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, e cioè la contemporanea trasmissione, da parte del preteso danneggiato ai titolari dell’azione disciplinare, dell’esposto nei confronti del magistrato per gli stessi fatti che hanno determinato la domanda risarcitoria, continui ad accadere e, anzi, divenga sempre più frequente, non potendo negarsi che la forza dirompente del messaggio mediatico diffuso con l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (“chi sbaglia paga”) sia assai più dirompente della effettiva portata dei precetti in esso contenuti.

Non può ignorarsi - per questo profilo - che il procedimento disciplinare sia assai più incisivo, efficace e rapido rispetto al giudizio di danno, che risente certamente dei problemi connessi alla “insostenibile lentezza della giustizia civile”,17 che tante condanne dello Stato italiano ha determinato presso la Corte di Strasburgo (e che potrà determinare anche in sede di responsabilità civile dei magistrati ed all’esito di rivalsa, tanto più in quanto vi sia - come temuto dall’Associazione Nazionale Magistrati - un ricorso massiccio e strumentale all’azione risarcitoria).

Se ciò è vero, le preliminari determinazioni del Procuratore generale della Corte di cassazione in ordine all’esercizio dell’azione disciplinare o all’emissione del decreto di archiviazione potrebbero essere rilevanti e, in ogni caso, rivelarsi utili nel più lungo e articolato giudizio civile.

D’altronde, che vi sia una utilità degli atti del giudizio disciplinare ai fini della decisione da assumere in sede civile è circostanza tenuta presente dallo stesso legislatore del 1988 - non smentita dal legislatore del 2015 - laddove, al secondo comma dell’art. 9 della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, si prevede che “gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa”.

La norma, in verità, appare il frutto di uno scrupolo non dovuto, giacché per la sua mancanza non si sarebbe stracciato le vesti alcun interprete del diritto, proprio in considerazione del fatto che essa prevede una mera facoltà di acquisizione di atti nel giudizio di rivalsa: è pacifico che tale facoltà vi sarebbe stata ugualmente in assenza di specifica previsione di legge, sulla base dei principi generali in materia di acquisizione processuale di atti; peraltro, l’utilizzazione del termine “giudizio” e non “procedimento” sta a significare che il legislatore non abbia pensato alla circostanza che, ove il procedimento disciplinare non sia ancora sfociato nella fase dibattimentale, sia garantita la necessaria riservatezza propria del procedimento disciplinare in fase istruttoria che, in concreto, potrebbe portare anche ad un diniego motivato di ostensibilità da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione, se gli aspetti di riservatezza siano ritenuti prevalenti sull’interesse delle parti in sede civile all’acquisizione degli stessi nel giudizio contro lo Stato.

Per di più, proprio i principi generali in materia di acquisizione di atti nel giudizio civile fanno sì che possa ritenersi possibile che tali atti possano essere acquisiti su istanza di parte o d’ufficio, non solo nel giudizio di rivalsa, ma anche nel giudizio contro lo Stato.

Ancora, gli stessi principi possono consentire l’acquisizione nel giudizio risarcitorio, su istanza di parte o d’ufficio, anche di atti relativi al giudizio predisciplinare, compreso l’eventuale decreto di archiviazione, che potrebbe immediatamente sgombrare il campo da equivoci e strumentalizzazioni legate ad azioni risarcitorie del tutto pretestuose e infondate (ma non più inammissibili), fatto salvo - sempre - il diniego motivato da parte del Procuratore generale, ove ritenga le esigenze di riservatezza prevalenti sull’interesse delle parti alla produzione nel giudizio civile di atti o documenti riservati.

Dunque, nel nuovo contesto normativo, le sollecite determinazioni del Procuratore generale della Corte di cassazione (nel termine di un anno dalla conoscenza del fatto) potrebbero rivelarsi di grande rilievo proprio in quei casi di contemporanea formulazione dell’esposto (in sede disciplinare) e della domanda risarcitoria (in sede civile) e, soprattutto, ogni qualvolta il magistrato sia stato strumentalmente attinto da azioni giudiziarie ictu oculi infondate.

Fermo restando che, laddove invece la doglianza del preteso danneggiato si riveli degna di attenzione e, comunque, complessa, tale da determinare l’inizio dell’azione disciplinare, soccorrono le norme previgenti all’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio civile.

In primis, tutti i termini di decadenza del procedimento disciplinare e per l’esercizio della relativa azione sono sospesi (con possibile sospensione facoltativa del procedimento giurisdizionale disciplinare o di quello amministrativo predisciplinare) in caso di pendenza di un procedimento civile, penale o amministrativo pregiudiziale all’accertamento del fatto costituente l’illecito disciplinare della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (lett. g) dell’art. 2) ovvero del travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile (lett. h) dell’art. 2), e ciò ai sensi della lett. d) bis dell’art. 15, ottavo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006.

Nella ipotesi di giudizio risarcitorio pendente in sede civile, invero, la pregiudizialità deve essere intesa non in senso stretto, con riferimento alla identità del fatto e ad un potenziale conflitto tra giudicati - che, come si è prima osservato, non sussiste mai - ma soltanto in senso logico e nelle limitate ipotesi previste dalla norma, onde evitare una duplicazione di attività probatorie volte ad accertare gli stessi fatti, che possono comunque essere diversamente valutati nelle diverse sedi competenti.

Detta pregiudizialità, pur in tal modo intesa, non può sussistere in ogni caso con riferimento al giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato - quanto meno se non vi sia intervenuto volontariamente il magistrato - in quanto non può esservi all’evidenza pregiudizialità, nemmeno logica, ove il magistrato attinto dalle indagini, sommarie o non, in sede disciplinare non sia parte in un giudizio risarcitorio in sede civile.

Nei casi di possibile pregiudizialità (logica), il Procuratore generale della Corte di cassazione (e, successivamente, il giudice disciplinare, se la questione sia sollevata in giudizio), al fine di apprezzare la “inescusabilità” del comportamento negligente del magistrato, potrà valutare se occorra o meno attendere l’esito del processo civile (come di quello penale o di quello amministrativo), che metta definitivamente in luce la “grave violazione di legge” ovvero il “travisamento dei fatti”.18

Con particolare riferimento ai rapporti del procedimento disciplinare con i processi civili, infatti - come si è già osservato - l’art. 20 del d.lgs. n. 109 del 2006 non detta, come per i processi penali, specifiche disposizioni che sanciscano autorità o efficacia di cosa giudicata alle sentenze civili rispetto agli accertamenti ed alle valutazioni in sede disciplinare. Viceversa - come si è pure osservato - il primo comma dell’art. 20 dispone la più completa autonomia dell’azione disciplinare, promossa “indipendentemente dall’azione civile di risarcimento del danno (…) relativa allo stesso fatto”.

La valutazione della possibile sospensione facoltativa (e non necessaria) del procedimento predisciplinare (che, si ricorda, ha natura amministrativa e non giurisdizionale) va coordinata invece con l’unica previsione di legge che ne prende in considerazione l’ipotesi di sospensione, l’art. 16, quarto comma, ultimo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006, che prevede, oltre la specifica sospensione per esigenze motivate di segretezza opposte dall’ufficio procedente in sede penale, che “il procedimento può essere altresì sospeso nel corso delle indagini preliminari”.

E’ stato in particolare ritenuto che detta facoltà “persegue la ‘ratio’ di consentire al P.G. presso la Corte di cassazione di differire l'iniziativa disciplinare fino all'esito certo delle indagini preliminari, che si manifesta solo nella decisione del G.I.P. sull'esercizio dell'azione penale”.19

Pur nel convincimento che, nella pratica attuazione del diritto, il Procuratore generale difficilmente si determinerà alla sospensione di un procedimento predisciplinare che poi si protrarrebbe inevitabilmente per un tempo irragionevole, sino al passaggio in giudicato della sentenza resa nel giudizio di rivalsa, in via meramente astratta e teorica la specifica previsione di cui all’art. 16, quarto comma, ultimo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006 non sta a significare l’impossibilità di sospensione del procedimento predisciplinare in pendenza di giudizio civile, per diverse ragioni. Anzitutto, la previsione di sospensione dei termini, anche del termine annuale per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 15, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) - nel caso di giudizio risarcitorio pregiudiziale all’accertamento del fatto costituente l’illecito disciplinare della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (lett. g) dell’art. 2) ovvero del travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile (lett. h) dell’art. 2) - mal si concilierebbe con la impossibilità di disporre la sospensione del procedimento stesso laddove i termini di decadenza siano invece sospesi. Questo, del resto, è pacifico nell’ipotesi di c.d. pregiudiziale penale, ove la sospensione dei termini comporta, per prassi consolidata, la sospensione del procedimento.

Dubbi pertanto possono esservi sulla possibilità di sospensione del procedimento predisciplinare solo laddove si esuli dalla previsione di cui all’art. 15, ottavo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006 perché in tale ultima ipotesi, in assenza di una pregiudizialità logica che sospende i termini (anche) del procedimento predisciplinare, la diversità di natura - amministrativa e giurisdizionale - dei due diversi procedimenti rende plausibile l’opzione interpretativa che neghi in radice tale possibilità.

In queste ultime ipotesi, peraltro, è assai dubbia e di difficile configurabilità pratica anche la sola opportunità di dover attendere - ai fini delle determinazioni sulla iniziativa disciplinare - l’esito certo del giudizio civile, sia pure per profili non strettamente pregiudiziali, ma solo se fondati sull’esigenza di evitare una duplicazione di attività probatorie.

Resta fermo che in ogni ipotesi di pendenza del giudizio civile di danno, oggi come prima, il Procuratore generale della Corte di cassazione che procede in via predisciplinare potrà acquisire dal giudice civile ogni notizia, atto o informazione utile ai fini delle sue determinazioni sull’esercizio dell’azione disciplinare, ma questa - se del caso - dovrà essere esercitata in piena autonomia e prescindendo dal giudizio civile, entro l’anno dalla notizia circostanziata del fatto (termine sospeso nel caso della suindicata ipotesi di cui all’ottavo comma dell’art. 15, lett. d) bis del d.lgs. n. 109).

Ove invece il Procuratore generale si determini per l’archiviazione del procedimento predisciplinare, anche ed eventualmente con la formula “allo stato degli atti”, si potrebbe porre l’ipotesi di esercizio dell’azione disciplinare successivamente alla definizione del giudizio civile di rivalsa negativa per il magistrato responsabile.

Vero è che, in tal caso, si dovrebbe verificare sia l’eventuale decadenza per il decorso del termine annuale dalla notizia circostanziata del fatto per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 15, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) e, in tal caso, si dovrà verificare se via sia stata o meno la sospensione automatica dei termini (ai sensi della lett. d) bis dell’art. 15, ottavo comma), sia l’eventuale decadenza per il decorso del termine decennale decorrente dal momento del fatto in valutazione (art. 15, comma 1 bis), che prescinde da qualsiasi sospensione e che non può considerarsi inverosimile, tenuto conto proprio dei lunghi - o lunghissimi - tempi di definizione dei giudizi civili.

 

Mario Fresa

sostituto Procuratore generale

della Corte di cassazione

1 Sulla responsabilità civile del dipendente pubblico e della Pubblica Amministrazione in generale v. TENORE, La responsabilità civile della p.a. e dei suoi dipendenti, in TENORE, PALAMARA, MARZOCCHI, BURATTI, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, 2009.

2 Referendum fortemente voluto da diverse forze politiche (radicali, liberali e socialisti) dopo il noto caso Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di collaboratori di giustizia, poi rivelatesi false, di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti. In corso di campagna referendaria, anche la DC ed il PCI si schierarono a favore dell’abrogazione dell’allora vigente sistema di responsabilità e l’esito della consultazione vide una percentuale altissima di risposte affermative (80,20%).

3 In particolare C. cost., 14 marzo 1968 n. 2 che, in relazione all’art. 28, affermò, per un verso, che si potevano legittimare condizioni e limiti alla responsabilità diretta e, per altro verso, che la responsabilità dello Stato e del magistrato non erano simmetriche e, come ritenuto per gli altri impiegati dello Stato, era possibile desumere da altre norme o principi dell'ordinamento una responsabilità dello Stato anche nei casi in cui non fosse prevista la responsabilità del magistrato secondo la ristretta disciplina dettata dagli art. 55, 56 e 74 c.p.c. all’epoca vigenti.

4 Tra i primi commenti alla legge n. 18 del 2015 si segnalano: VERDE, Non è questa la strada per ricomporre l’equilibrio tra i poteri, in Guida al Diritto/Il Sole 24 ore, 2015, n. 13, 17 ss. e SALERNO, Risarcibilità, colpa grave, rivalsa: ecco le novità, in Guida al Diritto/Il Sole 24 ore, 2015, op. cit., 23 ss.

5 Secondo Cass., sez. terza, 8 maggio 2008 n. 11229 gli “estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria", sono solo coloro che, pur non appartenendo ad una delle magistrature, esercitano tuttavia le stesse funzioni di chi ne faccia parte, come i giudici onorari ed i procuratori onorari, gli esperti designati a comporre i collegi delle sezioni specializzate agrarie, del tribunale dei minori, delle commissioni tributarie, i giudici popolari delle corti d'assise”.

6 C. Cost. 19 gennaio 1989 n. 18 ha sancito la legittimità costituzionale delle norme sulla responsabilità dei componenti del collegio ed ha previsto la facoltatività della redazione del verbale di dissenting opinion.

7 Cass., sez. terza, 3 gennaio 2014 n. 41; parzialmente difforme in precedenza Cass., sez. terza, 16 novembre 2006 n. 24370.

8

NOVELLI, La responsabilità amministrativa e contabile del magistrato, in Giust. civ., 2008, f.4, 216.

9 Cass., sez. un., 27 maggio 2009 n. 12248.

10 Cass., sez. terza, 18 marzo 2008 n. 7272.

11 Corte di Giustizia CE, 30 settembre 2003, Kobler c. Repubblica d’Austria, in Foro it., IV, 4 ss. ; Corte di Giustizia CE 13 giugno 2006, Traghetti del Mediteraneo spa c. Italia , in Foro it., 2006, IV, 417 ss..

12 Cass., sez. sesta, ord. 29 gennaio 2015 n. 1715.

13 Cass., sez. sesta, ord. 26 febbraio 2015 n. 3916; nello stesso senso Cass., sez. terza, 5 novembre 2014 n. 23527.

14 Cass., sez. terza, 3 gennaio 2014 n. 41.

15 Sulla responsabilità civile del magistrato, v. TENORE, Rapporti tra illecito disciplinare, illecito penale, illecito civile ed illecito amministrativo-contabile del magistrato, in FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010, 444 ss., ove è riportata ampia bibliografia sul tema.

16 C. cost. 11 gennaio 1989 n. 18.

17 Cfr. l’intervento del Procuratore generale della Corte di cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 26 gennaio 2012, pubblicato nel sito della Corte di cassazione, www.cortedicassazione.it.

18 SORRENTINO, Procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati: cause di sospensione e sospensione dei termini, in Quest. Giustizia, 2008, 14 s.

19 Cass., sez. un., 5 dicembre 2012 n. 21853. Cfr. DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati, gli illeciti – le sanzioni – il procedimento, Milano, 2013, 94; FRESA, “Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, in FANTACCHIOTTI, FRESA, TENORE, VITELLO, La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010, 420.

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